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Giovedì, 18 Aprile 2024
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Giulia Ubaldi: “Vi spiego cosa fa un’antropologa del cibo”

La giovane studiosa e ricercatrice milanese ci spiega com’è il suo lavoro. Dalla produzione dei salumi in Cilento alla creazione di una scuola di cucina. L'intervista

Giulia Ubaldi, 33enne milanese con radici romagnole, fa un mestiere particolare. È un’antropologa del cibo, che dopo aver lavorato come giornalista enogastronomica per molte testate di settore è tornata alla passione iniziale che vede la cucina al centro di un sistema di relazioni culturali e sociali. Tutti temi che esplora nel suo LAC, il Laboratorio di Antropologia del Cibo aperto a Milano nel 2021, dove tiene corsi con cuochi (professionisti e non) da tutto il mondo. Ci ha raccontato il suo percorso.

Giulia Ubaldi

Spiegaci come si diventa antropologi del cibo

Innanzitutto bisogna studiare antropologia. Io l’ho fatto all’Università di Siena, quando ancora non avevo così chiaro che avrei avuto un futuro nel campo del cibo.

Come sei arrivata a occuparti di gastronomia?

A un certo punto mi sono trasferita in Cilento, nel piccolo paese di Caselle in Pittari, per fare ricerche per la mia tesi sul concetto di “casa”. 

Un posto dove si mangia molto bene…

Senz’altro. Lì c’è ancora un’economia fortemente di sussistenza: tutte le famiglie hanno un orto, vanno in campagna, mangiano quello che coltivano. La spesa altrove è limitatissima. Ho iniziato a visitare tante signore che mi hanno insegnato a fare il caciocavallo, le mozzarelle, la ricotta. Poi a gestire l’orto, raccogliere le olive, fare il vino. E anche i salumi.

Un piatto iraniano

Non proprio quello che ci si immagina quando si pensa al lavoro di una ricercatrice…

A dire il vero l’approccio tradizionale dell’antropologo è proprio questo. Si chiama “osservazione partecipante”. Bisogna studiare un certo contesto mettendo le mani in pasta. Ovvero vivendoci, passandoci del tempo. Questo è il paradosso del mestiere: riesci a raccontare solo se sperimenti sulla tua pelle.

Come sono andate poi le cose in Cilento? Ci sei rimasta a lungo?

A dire il vero sì. Mi sono trovata talmente bene che ho addirittura aperto la mia azienda agricola. Con il mio compagno di allora producevamo zafferano, arance e anche salumi.

Vi occupavate di tutto voi?

Assolutamente. Avevamo un maiale nero Cilentano (di nome Nerone!) e c’era anche un bed & breakfast. Tutte le mattine gestivo la colazione, con i nostri prodotti e altre cose buonissime che ci portavano amici e parenti. Lì si usa così.

Giulia Ubaldi durante un corso

Ecco allora quando è entrato in gioco il cibo…

Eh si. In quel momento ho iniziato a pensare a come intrecciare la mia formazione accademica con la gastronomia. Un primo bel lavoro, e anche un punto di svolta, è stato il libro Cento Volte Mezzogiorno...

Cioè? Cos’è successo dopo il libro?

Avevo messo insieme un centinaio di racconti di piccoli paesi del Meridione che avevo visitato. Li ho raccontati ciascuno a partire da un piatto, una ricetta o una sagra tradizionale. Poco dopo ho lasciato il Cilento e, nel momento in cui sono tornata a Milano, è stato grazie al libro che ho aperto un “capitolo” nuovo. L’ho proposto a un po’ di testate, e subito Vanity Fair ha pubblicato tutto quanto, suddividendolo in 10 episodi. Poi ho scritto anche per Scatti di Gusto, L’Espresso…

Ingredienti per gli involtini primavera

Sei finita a fare la giornalista, insomma

Forse non l’ho scelto consapevolmente, ma è andata proprio così. Però in ogni articolo ho portato quell’approccio di osservazione partecipante di cui dicevamo prima. Facevo dei mini-viaggi di un giorno per andare a trovare, che so, l’azienda sull’Appennino che alleva il gallo nero. Oppure facevo la vendemmia per due settimane o la raccolta delle olive per un mese. Tornavo e raccontavo tutto.

La tavola del LAC

E qui torniamo alla tua formazione da studiosa

Esatto. Per me non avrebbe avuto nessun senso descrivere un vino come “fruttato, minerale, secco…” e basta. L’antropologia mi porta a prendere in considerazione il contesto umano che ha prodotto quel vino, le sue relazioni storiche, sociali, culturali. Cerco di comporre un quadro e comunicarlo. E la tavola mette insieme tanti di quei valori che di racconti se ne possono fare a migliaia.

Ci racconti dell’apertura del LAC?

Volentieri, ma prima ci sarebbe un altro passaggio…

Che è?

Anche nel mio caso, ci ha messo lo zampino la pandemia. Alla fine del 2020 erano cinque anni che facevo la giornalista a Milano e allo scattare del lockdown ho preferito spostarmi per fare altro. E sono tornata al sud, questa volta in Salento, a dare una mano nella masseria di un amico. 

Lo sfouf, una torta di semolino

Ancora orto e cucina?

Eh sì. Ho ripreso a lavorare in campagna e, in quel momento assurdo, ho fatto il pieno di energia. Come ai tempi del Cilento. In realtà gestivo un po’ anche la comunicazione dell’azienda. Avrai capito che non amo fare una sola cosa alla volta…

Già. E infatti poi sei tornata a Milano per aprire il tuo laboratorio

Avevo voglia di uno spazio fisico che fosse solo mio. A pensarci adesso è quasi incredibile quanto siano state fluide le cose; si vede che era destino. A Natale 2020 ho avuto l’idea di aprire questa specie di scuola. Ho venduto la casa di mia nonna, comprato la sede al Giambellino e persino trovato una bellissima cucina a un prezzo di favore. Tutto è partito ufficialmente a settembre 2021.

La cucina del LAC

Cosa si fa al LAC?

In tre parole: corsi, incontri, serate. Ma il concetto resta uno: si lascia parlare la cucina di culture, tradizioni e popoli. 

Giulia Ubaldi al Laboratorio Antropologico di Cucina

Chi c’è con te?

Un gruppo di una quarantina di persone che ho conosciuto negli anni. Ci sono cuochi professionisti ma anche tante persone comuni che cucinano molto bene. Il focus è sulla cucina migrante. Ma la nostra non è tanto un’attività sociale quanto un lavoro antropologico e culturale a tutto tondo.

Corsisti al LAC

Dove sta la differenza?

Mi interessa il modo in cui quando una persona si sposta porta con sé una tradizione che inevitabilmente si contamina. A Milano ci sono persone da tutto il mondo, che preparano cibi che parlano di casa. E il modo migliore per fare la loro conoscenza è lasciarli cucinare e condividere la loro esperienza. Facciamo corsi su preparazioni ben specifiche, che sono quelle che raccontano di più — come la cucina dei tuberi dei Caraibi o lo street food di Taiwan, che prepara una musicista del Teatro La Scala — ma anche di cucina lombarda e campana.

Serata al Laboratorio

Cosa succede durante i corsi al LAC?

Innanzitutto io non tengo lezioni; il mio lavoro è preliminare. Progetto il taglio di ogni incontro, poi lascio che le cose succedano da sole. Alle 20 arrivano gli ospiti e li accogliamo con un assaggio e un calice. Poi le cose vanno proprio come quando sei a cena da un amico: se vuoi dai una mano in cucina, altrimenti resti seduto e chiacchieri. Alla fine, si mangia comunque tutti insieme.

Come si fa a partecipare?

È molto semplice, si va sul sito, si sceglie un corso dal calendario, ci si iscrive e ci si presenta. Ogni incontro costa 55€, compreso di cena e bevande.

La cena alla fine del corso al LAC

Senz’altro abbordabile, considerando i prezzi standard dei corsi di cucina. C’è qualche novità in arrivo?

Ho appena pubblicato un nuovo libro. Si chiama Zammù e ripercorre dieci anni di viaggi e racconti in giro per il Mediterraneo. È un po’ un trattato di antropologia e un po’ una guida, un po’ taccuino di viaggio, atlante e guida gastronomica. Entro l’anno ne uscirà un altro, dedicato solo al LAC, con le storie dei nostri cuochi e le loro ricette.

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