Se c’è un tratto che accomuna tutti i turisti del mondo azzerando differenze sociali e culturali, è la necessità di cibarsi. Che sia turismo per motivi religiosi, sportivi, per lavoro e affari, tutti devono prima o poi fermarsi a mangiare. Senza ovviamente contare chi intraprende viaggi al principale scopo di conoscere le abitudini, piatti, pietanze di un paese straniero: il famoso turismo gastronomico. Mangiare (a tutti i livelli) è un atto imprescindibile su una spiaggia caraibica, sulla vetta di una montagna, mentre si osservano la Torre di Pisa o la Gioconda al Louvre. Il cibo nell’era del turismo di massa può essere dunque corollario di una vacanza o motivo e ragione di essa. Utilizzando le parole di Marco D’Eramo nel saggio sul turismo Il Selfie del mondo, “il cibo va visitato” al pari di un affresco o una rovina azteca. Questo comporta una turistificazione alimentare senza precedenti, adornata da un lessico che impoverisce di significato termini abusati come “tradizionale”, “autentico”, “reale”. Tutto ciò fa bene alla cultura gastronomica di un paese? Ovviamente no e anche noi ci stiamo cadendo dentro.
La turistificazione alimentare: di cosa si tratta e l’abuso di un certo lessico
Come abbiamo detto il cibo accompagna le fasi di un viaggio, che sia la ragione principale di questo o motivo accessorio. Secondo l’OCSE la spesa di un turista per mangiare è pari al 30% sul totale del viaggio, un dato significativo che fa riflettere. Tanto più se a muovere le masse è l’intenzione di conoscere abitudini, usi e costumi a tavola di un paese. La turistificazione, ovvero il processo che porta alla modifica di quartieri e città a discapito dei residenti e ad esclusivo appannaggio di un consumatore mordi e fuggi, colpisce anche e soprattutto il cibo. Un bersaglio dunque facile e che fa gola a tutti, tanto da poter parlare di turistificazione alimentare o gastronomica: ogni paese mette in scena anche in cucina l’idea che il mondo si è fatto di lui, azzerando differenze, calcando la mano su alcuni stereotipi culinari, abbassando in generale qualità e gusto. Ed ecco il teatrino del gastronazionalismo, il tratto sedicente di chi vende storie sul cibo al fine di costruire “identità” (altro termine abusato) inventate o gonfiate.
La Spagna diventa così una grossa tapas, la Francia un caffè snob dove mangiare viennosierie, l’Asia un macrocosmo di spezie e sapori piccanti e l’Italia una bella trattoria piena di stereotipi. A conferma basta guardare il logo della cucina italiana candidata all’Unesco. Nella spasmodica ricerca di mostrare il reale, si cade nella contraddizione di falsificarlo, senza considerare l’utopia di cristallizzare un magma così mutevole come il patrimonio gastronomico. Il tranello si cela proprio nell’utilizzo del termine autenticità, vocabolo che ha senso d’esistere forse solo in un contesto turistico. I locals, infatti, considerano questo criterio quando fanno la spesa o scelgono un ristorante? In molti casi no, ma se la risposta dovessere essere sì è perché stiamo tutti diventando anche un po’ turisti a casa nostra.
La turistificazione alimentare e i suoi effetti più lampanti
Non a caso è proprio UNESCO a calcare la mano su un certo storytelling: il termine tradizione e tradizionale compare affianco alla maggior parte dei suoi patrimoni immateriali, creando una scia a catena. Anche e soprattutto in ambito gastronomico, dove non sembra esserci pasta se non “fatta in casa”, ricette “antiche”, sapori di “campagna e genuini”, anziane signore depositarie di “saperi e tradizioni”. Tutto bello, se fosse vero. Il tratto più lampante della turistificazione che opera anche attraverso il lessico per farsi propaganda, è invece l’omologazione dei sapori, delle tradizioni, a uso e consumo del turista.
E così la carbonara diventa simbolo esclusivo di romanità a discapito di tanti altri piatti, le ricette si spogliano degli ingredienti più difficili, come ad esempio le frattaglie, altre ancora si destagionalizzano per averle sempre a disposizione. Influenzando così la cucina in generale anche nel quotidiano. Come già sappiamo, sono sono tanti i motivi per guardare attentamente ai rischi del fenomeno dell’overtourism: certo, tanto turismo porta risorse economiche. Ma anche indubbio appiattimento del gusto, sovraprezzi per i residenti. E tante tante narrazioni posticce di cui possiamo fare a meno.