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Venerdì, 26 Aprile 2024
Agricoltura

Si chiamano “piwi” e potrebbero essere i vini del futuro

La crisi climatica e il suo impatto sull’agricoltura portano a ripensare anche il vigneto: i vitigni resistenti sembrano essere qui proprio per questo

Cosa c’entrano i vini chiamati “piwi” con la sostenibilità? Che ci si trovi in un periodo difficile per l’ambiente se n’è accorto anche il vino e chi lo produce. Tra i molti effetti negativi della crisi climatica c’è l’aumento delle patologie in campo agricolo, vitivinicoltura compresa. In particolare sono due le malattie della vite che, anche a causa di stagioni sempre più calde e siccitose, attaccano le viti e i loro frutti: la peronospora (che si manifesta con macchie brune-giallastre) e l’oidio (quando le foglie si ricoprono di una patina biancastra e polverosa). Entrambi i casi, se non trattati in tempo, possono portare alla mancata raccolta dell’uva. Da qui l’esigenza di rendere resistenti le viti ai patogeni con i PIWI, acronimo della impronunciabile parola tedesca Pilzwiderstandsfähige, che sta per viti resistenti ai funghi. La loro battaglia? È quella ingaggiata proprio contro le malattie fungine della vite come oidio e peronospora.

PIWI. Non organismi OGM ma frutto di ibridazioni

Né le malattie né questa tipologia di vitigni sono novità del panorama enologico. Gli studi condotti da alcuni ricercatori alla fine dell’800 hanno portato alla nascita di incroci tra Vitis Vinifera (la quasi totalità delle viti coltivate) e parti di altre Vitis di origine americana e asiatica, da cui la prima riceve i geni di resistenza alle principali malattie. Non parliamo quindi di organismi geneticamente modificati (OGM), bensì di un incrocio cosiddetto interspecifico, ovvero effettuato attraverso impollinazione e selezione. In pratica si tratta di un processo che - con un po' di fortuna - potrebbe avvenire anche in natura. Ciò che è importante specificare è che, anche a fronte di diversi rincroci, il patrimonio genetico della Vitis Vinifera rimane identico per il 95%. Tradotto nel bicchiere, vuol dire che i vini PIWI non hanno deviazioni organolettiche spiacevoli, cosa che invece accadrebbe se prevalesse la discendenza genetica delle Vitis minori.

Le uve Piwi

Un vigneto ph. Tim Mossholder da Pexels

Sono state registrate in Europa più di cento varietà di uve resistenti, tra quelle da vino e quelle da tavola. Gli ettari coltivati in Europa erano circa 300 nel 2018 secondo una stima dell’istituto francese Observatoire national du déploiement des cépages résistants (OSCAR). Oggi solo in Italia si coltivano circa 1000 ettari di vitigni resistenti, pari allo 0,3% delle nostre vigne, in particolar modo nelle regioni del Nord-Est che per prime hanno autorizzato la coltivazione: Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige, Veneto e Lombardia. A queste si sono aggiunte le Marche e l’Abruzzo per alcune varietà, mentre in Piemonte esiste un campo-prova presso l’Istituto Umberto I di Alba, meglio conosciuto come l’Enologica. Al momento sono 36 le varietà iscritte nel Registro Nazionale delle Varietà di Vite e tra le più diffuse troviamo il Bronner, lo Johanniter, il Solaris, il Souvignier Gris. I nomi derivano, talvolta, dall’uso del vitigno ibridato più famoso - vedi il Cabernet Blanc incrociato con il Regent – oppure sono semplicemente nomi di fantasia.

Piwi bianchi e rossi: la situazione in Italia

Gli esperimenti più riusciti – e che stanno riscuotendo anche un buon successo commerciale – appartengono al campo dei vini bianchi, mentre i rossi rimangono ancora in secondo piano. In totale sono circa 250 i vini Piwi prodotti in Italia su una stima di 140 aziende. Possono riportare l’Indicazione Geografica Tipica (corrispondente alla IGP riconosciuta a livello europeo), mentre non è ancora permesso usare le due denominazioni più importanti della classificazione, ovvero Doc e Docg. Cosa, in verità, accaduta in alcuni paesi europei grazie alla modifica del Regolamento (Ue) 2021/2117, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea il 6 dicembre 2021, mentre l’Italia paga lo scotto del rallentamento dell’iter di approvazione che passa prima dalle Regioni e poi dagli enti competenti.

Piwi, per molti, ma non per tutti: una viticoltura più sostenibile?  

I sostenitori dei PIWI ritengono che la loro diffusione rappresenti un passo in avanti verso una viticoltura più sostenibile sotto il profilo ambientale. Tra le ragioni, la drastica riduzione dei trattamenti fitosanitari in vigna e dunque di pesticidi, un minor compattamento del suolo, un minor uso di acqua, l’espansione dell’agricoltura biologica. Un affare non di poco conto, visto che dall’ufficio statistico dell’UE (Eurostat), arriva un dato secondo il quale, ogni anno, l'uso di pesticidi per ettaro in viticoltura è di gran lunga il più alto rispetto a tutti gli altri prodotti agricoli coltivati nell’Unione Europea. Insomma, questi vitigni si ammalano meno e dunque hanno meno bisogno di cure.

C’è però anche chi guarda con diffidenza a queste varietà, considerandole una minaccia alla tipicità dei vini italiani. Il timore è infatti quello che, con un’introduzione importante dei Piwi nel vigneto italiano, l’identità viticola nazionale possa risentirne negativamente. Inoltre, grazie alla loro resistenza ai funghi, potrebbero essere coltivati in zone non tradizionalmente vocate, stravolgendo il concetto di territorialità, alla base del principio stesso delle denominazioni di origine.

Un’azienda di soli Piwi: Nove Lune di Alessandro Sala

Alessandro Sala
Alessandro Sala, viticoltore bergamasco con la sua Nove Lune di Cenate Sopra, è un “Piwi nativo”, perché ha deciso 15 anni fa di piantare vitigni resistenti e creare un’azienda vitivinicola improntata esclusivamente su questa tipologia. Un territorio di montagna e un clima più rigido lo hanno convinto a tentare la strada dei resistenti. Oggi ha in produzione sette Piwi, ma porta avanti sperimentazioni ben più numerose. Inoltre, ha deciso di tentare la strada di incroci 'fatti in casa' per ottenere una nuova varietà resistente da omologare: “Stiamo sperimentando la crescita di un piccolo vigneto nel bosco” spiega a Cibotoday “quindi in una situazione di umidità importante. Eppure, siamo intervenuti con pochissimi trattamenti, nell’ordine di due o tre. In un’annata secca come la precedente, invece, siamo riusciti a non ricorrere ad alcun intervento fitosanitario. Qui in zona, le aziende convenzionali arrivano anche a 20/30 trattamenti l’anno”.

Nova Lune nel Bergamasco

Entrare poco in vigna per Sala significa non usare mezzi meccanici, non stressare i terreni e la loro fertilità, lasciare che il manto erboso cresca senza concime, evitare l’aratura, non compromettere la salubrità della fauna e delle falde con l’immissione di metalli pesanti come rame e zolfo (usati anche in agricoltura biologica). Le criticità di questa scelta, secondo Sala, sono legate alla comunicazione che si fa dei Piwi e dei vini che ne derivano: “A cominciare dal nome che ritengo davvero brutto. Il consumatore meno esperto è indotto a pensare che siano etichette di serie B. Quanto al gusto è sbagliato cercare di assimilarli ai vitigni più conosciuti, perché, di fatto, sono uve 'nuove' che portano nel bicchiere nuove espressioni. Ciò che conta è che, a livello analitico, non hanno alcun difetto”. Forse bisognerebbe allora smetterla di chiamarli “Piwi”.

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