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Domenica, 28 Aprile 2024
Territorio

Cosa sono e come funzionano i ristoranti pop-up

Viaggio nella tendenza dei temporary restaurant. Mentre cuochi e cuoche diventano professionisti nomadi, i ristoranti si fanno sempre luoghi più fluidi e diversificati

Non si scopre nulla di nuovo a raccontare i pop-up restaurant, sono almeno 10 anni che se ne parla in Italia, molto di più nel resto del mondo. Citiamo ad esempio un’iniziativa di Officine Farneto a Roma – era il 2015 – che durante un evento di tre giorni metteva a disposizione dei container per allestire un ristorante temporaneo. Nello stesso anno lo chef Massimo Bottura annunciò che avrebbe avuto il suo ristorante temporaneo a Londra. Formati pop-up si sono rincorsi negli anni per trasformarsi, scomparire o diffondersi.

Il ristorante Noma e i nuovi pop-up

Un esempio di Pop_Up Restaurant

A ridare nuova visibilità ai pop-up ci ha pensato lo chef René Redzepi quando ha annunciato di voler chiudere il suo ristorante, il Noma di Copenaghen, per declinarlo in una nuova formula, quella di laboratorio e ristorante temporaneo. Stesso luogo ma formula più occasionale: le peculiarità del pop-up sono incarnate proprio da questa fluidità, tanto che si fa prima a dire che cosa non è un pop-up, rispetto a cosa è, precisamente. Peraltro lo stesso Redzepi non era stato alieno a formule ristorative ibride, avendo portato ristoranti temporanei a Kyoto, New York e in Messico e, sotto un ponte lungo i canali, nella stessa Copenaghen in una delle estati prima della pandemia.

Che cosa sono i pop-up restaurant

Come si anticipava, il concetto di pop-up per sua stessa natura è difficile da includere in definizioni troppo stringenti. Di base si tratta di attività ristorative temporanee, che possono prendere forma in diversi spazi: che sia un food-truck, quindi un luogo dove si fa cibo di strada, che sia una casa, che sia un vero e proprio ristorante, oppure un luogo dove c’è già un evento. Esistono pop-up anche in altri settori, come quelli dei negozi al dettaglio, si può trovare anche qualche affinità nel mondo dell’arte quando si parla “happening” oppure di “performance”. La mancanza di una programmazione di lunga durata, la movibilità e la replicabilità in nuovi contesti ha determinato il successo e la resistenza di questi format nel tempo e ne ha definito i contorni senza troppe rigidità. Un ruolo fondamentale lo ricopre la comunicazione, che sia molto vistosa o che si basi su passaparola. È fondamentale per raggiungere il proprio pubblico visto che non c’è una vera e propria saracinesca da tirare su, un’insegna luminosa, un passaggio su strada.

L'esempio di We Are Ona

Le tavole di We Are Ona-2

A uno degli studenti del Noma si deve la nascita di uno dei circoli di pop-up restaurant più riusciti. Luca Pronzato è l’artefice di We Are Ona, nato nel 2019 con cui ha messo in piedi una vera e propria agenzia di professionisti della ristorazione, aprendo ristoranti temporanei in varie parti del mondo, come città del Messico, Arles, Los Angeles, Parigi ma anche Venezia durante la Biennale e Milano durante il Salone del Mobile. “La parola Ona, che in catalano significa onda, descrive questo nuovo movimento che mira a portare libertà e opportunità ai giovani talenti” si legge tra i propositi del collettivo “creiamo esperienze gastronomiche effimere in luoghi speciali e stimoliamo la creatività dei giovani chef”. Stando a quanto dichiarato da Pronzato, questa formula non si oppone ai ristoranti tradizionali, ma cerca un approccio più orizzontale alla tavola, in cui possono unirsi, anche per pochi giorni, persone di nazionalità diverse, con esperienze professionali multidisciplinari, che magari vengono da altri settori e fanno i cuochi saltuariamente oppure che lavorano in altri ristoranti.

I ristoranti temporanei in Italia

I pop-up hanno avuto un loro sviluppo anche in Italia dove pure la ristorazione si è fatta le ossa tra le mura delle città, in formule familiari, tramandatesi nel tempo e dove le resistenze a immaginare il ristorante come un luogo diverso, meno fisico e concreto, con i suoi orari, il suo numero di telefono, il menu uguale tutto l’anno, sono più forti. Qui spesso si è parlato di pop-up restaurant interpretando questo concetto come quello di “ristorante stagionale”. Vista la conformazione stessa del paese, ristoranti che aprivano solo in inverno in montagna, o in estate al mare o sul lago, sono stati inseriti in questo ambito, sebbene siano spesso attività che si ritrovano identiche ogni anno, rendendo la temporaneità molto più simile a una semplice “temporalità”.

I pop-up restaurant negli hotel

Il ristorante Paolino di Capri all'Hotel Eden Ph. Andrea Di Lorenzo

Fondendo l’esigenza di riempire di contenuti le strutture e di fornire ai propri clienti esperienze sempre nuove (intese quasi come servizi aggiuntivi), anche gli hotel hanno cominciato ad accogliere dei pop-up restaurant. È il caso di Paolino, il ristorante di Capri aperto negli anni ’70 nell’isola campana, approdato per due mesi nel 2023 sulla terrazza dell’Hotel Eden di Roma. Ravioli capresi e frittatine di pasta alla Nerano hanno traslocato su una piazza importante, quella della capitale, per garantire agli ospiti e agli esterni un’esperienza nuova, sentita come speciale ed esclusiva perché limitata nel tempo. Talvolta il pop-up è occasione per particolari accordi commerciali, come il ristorante di montagna di Veuve Clicquot aperto sempre nello stesso luogo nel 2022. L’hotel Villa Sant’Andrea a Taormina del gruppo Belmond, ha creato il ristorante Brizza per la stagione 2022, per cenare con i piedi nella sabbia. Tornando a Roma, l’Hotel de La Ville del Gruppo Rocco Forte ha accolto nel 2023 il ristorante Dinings SW3 dello chef Masaki Sugisaki.

Gli eventi e i ristoranti temporanei

MAMM Ciclofocacceria

Tra i casi di pop-up più trasversali, Spiazzi a Venezia, uno spazio ibrido dove possono fondersi mostre, autoproduzione artistica ma anche alimentare, e poi tavolate su appuntamento. O ancora il tour di MAMM, ciclofocacceria che nel 2023 farà tappa a Milano, Trento, Bologna, Senigallia e Pescara. Nato nel 2015 a Udine, MAMM è il forno di Roberto Notarnicola, pugliese d’origine ma friulano d’adozione, che ha deciso di rafforzare le sinergie tra aziende unite da una comune visione sul mondo del pane, in un’ottica di cooperazione e non concorrenza. Ricorda anche il tour dei cuochi di Mazzo a Roma, Francesca Barreca e Marco Baccanelli, che decisero di partire portando in giro la propria cucina dopo aver chiuso la prima sede del ristorante nel 2019. Un’occasione per farsi conoscere fuori dai soliti confini e conoscere a propria volta altri pubblici, in una dimensione meno frontale (io cucino, tu mangi), ma più dinamica in cui sia chi propone che chi recepisce la proposta ha molto da guadagnare.

Mani e Vini, il pop-up italiano e internazionale

Ma un esempio di cuochi girovaghi (come i nomadi digitali) e cosmopoliti (oltre che talentuosi) è anche in Giulia Picardo (classe ’97) e Francesco Barelli (’94). Conosciutisi all’Alma, sono diventati una coppia nella vita e nel lavoro con il nome di “Mani e Vini”. Ci spiega Giulia (che lo scorso anno ha lavorato proprio a Ona) che “mani” è stato scelto perché c’è l’ambizione di fare tutto a mano, dal salume alla ricotta, dal pane alla pasta. Dopo aver concluso diverse esperienze in ristoranti romani, i due hanno cominciato a viaggiare proponendo la loro cucina ovunque ci fosse spazio. “Abbiamo iniziato con l’Umbria” ci spiega Giulia “poi abbiamo toccato diverse città italiane. Mentre dal 31 marzo siamo ad Arles in Francia, dove rimarremo fino a settembre, presso l’hotel Le Volterre”. 

A fare da cornice a questa avventura, una città piena di appassionati di fotografia e artisti, con un clima culturale vivace che si riflette in una cucina meticcia con influenze nordafricane, qualcosa con cui in Italia diventa molto difficile entrare in contatto. “Il bello è che ci si sposta molto e in questo momento per noi è un grande vantaggio, anche se capisco che non può essere per sempre. Abbiamo la possibilità di scegliere con chi lavorare, di cambiare sempre il menu, di incontrare tante persone ma anche produttori. Ci adattiamo alla strumentazione, alla clientela, ai prodotti, all’alloggio. Capita di conoscere nuove persone e aprirsi nuove strade”. Di contro ci sono altri fattori, come l’instabilità ad esempio oppure la necessità di farsi conoscere in contesti dove non si è nessuno. “Il nostro francese è ancora pessimo” scherza Giulia “ma in compenso so le parole per tutte le verdure”. Tra ristoranti casalinghi (home restaurant), private chef, laboratori di cucina, dark kitchen, residenze di chef (in luoghi che cambiano brigata e cucina a tempo) tavoli sociali e supper club, sembra che la ristorazione, normative permettendo, si stia decidendo – o sia in qualche modo obbligata – ad assumere forme sempre più ibride.

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