Amatissima e super popolare, tanto da essere data perfino un po’ per scontata. È la Margherita, la pizza che da oltre un secolo ha ridefinito il concetto stesso di pizza. Nell’epoca delle tonde gourmet e delle farciture mirabolanti, è il porto sicuro di tradizionalisti ed eterni indecisi, con la combinazione azzeccata (e per niente banale) di pomodoro e mozzarella. Abbiamo chiesto a Massimiliano Ceccarelli, pizzaiolo esperto, di spiegarci come si riconosce quella davvero ben fatta, restando nel solco della tradizione napoletana che l’ha vista nascere. Il video completo è in fondo all'articolo.
Chi è il pizzaiolo Massimiliano Ceccarelli
Romano doc (è nato nella Capitale 48 anni fa), Ceccarelli inizia a impastare da ragazzino, cominciando con la pizza romana tirata a mattarello in un forno di quartiere. Approfondisce la pizza al taglio, quella al metro e alla pala, lavorando in molti locali, poi si specializza sul filone napoletano, con esperienze in templi della tradizione come l’Antica Pizzeria da Michele e 50 Kalò di Ciro Salvo. A Roma è stato socio di Giancarlo Casa — patron de La Gatta Mangiona — per l’apertura de I Lazzaroni, “siamo stati i primi Romani a portare qui la napoletana”. Oggi è passato al lato docenze e insegnamento, ma tutti i giorni lo si trova alla bocca del forno di Sofia, un localino accanto Piazza Navona dove si respira aria partenopea. Chi bazzica YouTube, invece, potrebbe riconoscerlo in qualche video di Franchino Er Criminale, che ha affiancato nelle recensioni di svariate di pizzerie cittadine.
Il cornicione? A macchia di leopardo
Alla consegna di una Margherita fumante i primi indizi sono visivi. “Il cornicione dev’essere dorato”, spiega Ceccarelli. Una buona cottura si traduce anche nelle classiche “macchie di leopardo”, punti di colore scuro distribuiti sui bordi e sotto la base della pizza. Il fatto che ci siano — non troppi, e distribuiti omogeneamente — è indizio di cottura nei tempi e modi giusti.
Un’occhiata “sotto il tappeto”
Prima del taglio, è bene dare un’occhiata sotto la base. Alzare un lembo “e accertarsi non sia rimasta attaccata troppa farina, che potrebbe aver creato una patina gialla, potenzialmente indigesta, che diventa poi amara in bocca”. Un po’ di farina aiuta il pizzaiolo a stendere l’impasto, ma l’eccesso deve essere gestito: “C’è ad esempio chi passa il disco su un panno di lino prima di servirlo”.
Il falso mito del cornicione alveolato
Mentre le interpretazioni contemporanee ci hanno abituato a bordi esplosivi, non è detto che un cornicione “giga-alveolato” sia sinonimo di una pizza ben maturata. “Quella tradizionale a ‘ruota di carretto’ non sarà mai così gonfia, ma ciò non significa non sia ben fatta”, precisa Ceccarelli, “usare come parametro di qualità proprio l’alveolatura, che si può ottenere bombardando l’impasto di lievito — oppure applicare alla pizza tecniche tipiche della panificazione — non è corretto”. Insomma, il tipo di cornicione dipende dallo stile del pizzaiolo, e la super bolla è un mito da sfatare.
Il profumo del cornicione
Ma l’analisi del cornicione dà anche altre informazioni. Da leggere però col naso. “Me l’ha insegnato il presidente dell’Associazione Verace Pizza Napoletana: si prende un bordo, si apre e si annusa”. Qualsiasi nota “alcolica” è un campanello di allarme, “invece dovrebbe sapere di pane appena sfornato, di mollica calda. Se è troppo pungente significa che i tempi di maturazione non sono stati rispettati”. Parliamo, secondo le linee guida della medesima associazione, di almeno 6 ore. “Ma oggi l’impasto si lascia lievitare anche 12 o 24 ore”.
La Mozzarella per la Margherita: senza troppa acqua
Dal bordo ci spostiamo al centro, “con la mozzarella che deve essere liquefatta, ma senza il ‘guazzetto’ che ammorbidirebbe troppo la base”. Per la Margherita è necessario infatti usare un fior di latte già giustamente “strizzato” per ridurre il quantitativo di siero, evitando così eccessiva umidità in cottura.
L’olio di oliva per condire; o forse no
Una presa di coscienza intorno all’olio di oliva — alla sua qualità e al suo prezzo — si traduce nell’uso di grandi prodotti anche sulla pizza. “Ma il sapore dell’extravergine può essere molto distintivo, e sovrastare l’equilibrio di una Margherita”, precisa Ceccarelli. Ci sono quindi decani che prediligono opzioni più neutre, “come la Pizzeria Da Michele, che usa olio di soia”. Una scelta non tassativa, quindi, a patto che l’olio sia aggiunto a cottura ultimata, “perché il forno altererebbe le sue proprietà e il sapore”.
La fogliolina di basilico. Prima o dopo?
Un tocco verde brillante, oppure qualche foglia cotta insieme a pomodoro e mozzarella? “Il momento del basilico è a discrezione”. La tradizione della Margherita prevede attraversi la cottura in forno, mentre buona parte dei pizzaioli moderni lo aggiungono a cose fatte, per preservare la freschezza. “Da Sofia lo mettiamo prima di infornare, ma dipende dai gusti”.
La salsa di pomodoro, all’assaggio
Prima di dare un morso, vale la pena assaggiare il pomodoro da solo. “Classici San Marzano, o altre varietà che funzionano altrettanto bene. L’importante è che la conserva sia di qualità e non troppo acida”, per sposarsi con la mozzarella senza prevalicarla. “A Napoli chi fa la Margherita col pecorino non la sala nemmeno. Bisogna ragionare sul risultato complessivo”.
La Margherita napoletana alla prova del taglio
Diversamente dalla tonda della Capitale — “che più è ‘tesa’ e più è romana” — la napoletana “deve essere moscia! Lo dice sempre anche il collega Stefano Callegari”. Una volta tagliato uno spicchio, al sollevarlo è normale e giusto che la punta tenda a flettersi. “Allora lo pieghi, porti l’angolo al centro, e l’assaggi”.
Il test d’assaggio della napoletana
“La napoletana fatta bene, Margherita in primis, la riconosci in bocca”. Alla masticazione, infatti, impasto e ingredienti devono risultare leggeri, ben amalgamati e iniziare a sciogliersi per scomparire in fretta. “Pure il cornicione, che non dev’essere né gommoso e nemmeno croccante”.
Lo scoglio finale: la digestione
È così: la buona pizza si riconosce di notte. O comunque a pasto concluso, qualunque sia il momento. “Un impasto maturato bene e con ingredienti giusti non darà alcun problema di pesantezza, difficoltà di digestione o troppa sete”. Ceccarelli, per i suoi, sceglie la lievitazione fuori frigo, “come si faceva una volta, lasciando l’impasto a temperatura ambiente per rispettare i tempi ed evitare shock termici”.
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