“Quando qualcuno chiede a mio padre se fa il ‘vino naturale’, lui risponde ‘no, io faccio solo il vino’”, spiega Elisabetta Montesissa. Terza generazione di fattori e vignaioli, oggi è lei a capo dell’azienda di famiglia in una microscopica frazione di Carpaneto Piacentino, nella bella Val Chero. Montesissa non solo continua a produrre vino come si è sempre fatto — ovvero in modo artigianale — ma ha aggiunto la coltivazione di varietà di grano sul punto di essere dimenticate, ci fa la farina e anche la pasta, e ha in mente un progetto per ridare vita all’intero borgo con enoturismo e accoglienza. La sua storia.
Tre generazioni di Montesissa nell’azienda agricola in Val Chero
“Siamo stati a lungo la classica piccola azienda multifunzionale come ce ne sono tante in collina”, racconta a CiboToday Montesissa, oggi 52enne, “da quando i nonni si sono spostati in frazione Magnano da un paese a pochi chilometri”. Siamo sul finire degli Anni Quaranta, e sui terreni di proprietà la famiglia impianta seminativi per alimentare qualche bestia e un piccolo vigneto. “A cavallo tra i Settanta e gli Ottanta avevamo una trentina di vacche in lattazione; un bel numero per l’epoca”.
Il vigneto completava il ciclo produttivo, mettendo in valore gli appezzamenti meno adatti al foraggio. “A fine Anni Novanta il lavoro in stalla era diventato insostenibile; sia fisicamente che a livello di normative e redditività”, così il signor Emilio vende tutti i capi e allarga il vigneto, che diventa l’occupazione principale. Oggi l’Azienda Agricola Montesissa conduce in tutto 30 ettari di cui soltanto 4 vitati, con una produzione annua di 25mila bottiglie; il resto è impiegato diversamente, come diremo.
Il vino dei Montesissa, il frutto del loro terreno
“Oggi si fa un gran parlare di vino naturale. Vanno tanto di moda anche i cosiddetti ‘pét-nat’ e il metodo ancestrale. Ma qui il vino si è sempre fatto così”. Malvasia di Candia Aromatica, Ortrugo e Trebbiano tra i bianchi, poi Barbera e Bonarda tra i rossi, che danno vini frizzanti, “perché lo determina il terreno, non potrebbe essere altrimenti”. Per dirlo con semplicità: ci troviamo su terreni giovani, sommersi dal mare fino a 5 milioni di anni fa — “qui vicino hanno ritrovato anche un cranio di balena!” —, che, una volta all’asciutto, sono rimasti poveri di azoto, “l’elemento assimilato dai lieviti”.
I Montesissa ne usano esclusivamente di autoctoni, quelli che si trovano sull’uva e tutto intorno, “e a novembre, con i primi freddi, la fermentazione si ferma, perché lieviti finiscono ‘di mangiare’ l’azoto. Non non filtriamo, facciamo uno o due travasi nel corso dell’inverno, e con la prima luna di Pasqua imbottigliamo”. É cambiato poco, insomma, dal vino che facevano nonno e papà, “solo che all’inizio lo vendevamo sfuso in damigiana. Quando l’usanza si è persa siamo passati alla bottiglia. Tutto qui”.
Il grano e i ‘cru’ di farina dell’Azienda Montesissa
Quando si passeggia per le vigne dei Montesissa non è raro ritrovare delle conchiglie, “ed è questa peculiarità, questa ricchezza, che il nostro vino comunica”. Non solo uva, dicevamo, ma, da qualche anno, sempre più grano. “Insieme al mio compagno Massimiliano Croci (anche lui vignaiolo, Ndr) nel 2020 abbiamo deciso di smettere di vendere il grano all’ammasso”, e dopo aver chiesto agli anziani del paese cosa si seminava una volta hanno fatto lo stesso.
“Ragioniamo in termini di cru, proprio come per il vino”, ovvero seminando miscugli in alcuni appezzamenti piuttosto che altri, e tenendo separati i grani al momento della raccolta, così che ogni micro-parcella sia riconducibile ai frutti. “Non esprimiamo solo il legame col terreno, ma anche con le persone”, ci spiega Montesissa a proposito della rete di artigiani coinvolti nella lavorazione. “Il grano lo macina un mulino a pietra qui vicino, e la farina arriva a forni di zona, come Chiere e Chomp a Piacenza. Oppure a Roma, alla pizzeria Fariné, al forno Tulipane e alla Rimessa Roscioli”. I suoi chicchi li lavora anche Davide Longoni, maestro panificatore milanese che li manda alla macina dal Mulino Sobrino. Nel 2021, infine, si è aperta altresì una piccola filiera della pasta, “che si trova in alcune botteghe e ristoranti di zona e pure da Linearetta, a Milano”.
Il progetto di Elisabetta Montesissa per rilanciare il borgo Case Biasini
Il minuscolo borgo in cui insiste l’azienda si chiama Case Biasini, e soffre, come tanti in Italia, di ‘sindrome d’abbandono’. “Quasi tutti i giovani se ne vanno, e stiamo cercando di recuperare i terreni in disuso, insieme a ruderi e rustici”.
La visione di Elisabetta infatti coinvolge il piccolo centro un tempo più abitato, che vorrebbe convertire all’accoglienza degli ospiti che già frequentano la cantina in chiave enoturistica. Il lavoro è tanto, la prospettiva lunga, “ma sarebbe bellissimo riuscire a fare prima o poi accoglienza rurale, offrire i nostri prodotti e far vivere agli ospiti la realtà in cui viviamo. Per davvero”.
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